Critica
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L’ordine della visione non è l’ordine della memoria. Un oggetto, una figura non sono mai stabili al nostro sguardo ma appaiono e scompaiono incessantemente. Per la latenza dell’immagine sulla retina poi, le cose in movimento si moltiplicano, si deformano susseguendosi, rapide come vibrazioni, nello spazio-tempo che percorrono. A volte i dettagli della visione risultano caparbiamente sfuggenti o ingannevoli, si celano nel cono della percezione, si nascondono tra le pieghe del reale e dell’immaginario, del visto non visto, della deformazione dell’in-tra-visto.
La memoria invece è traccia che persiste, che dura nel tempo. Si nutre di dettagli, li assorbe, li sedimenta e ce li ripropone a distanza. Anche quando ritrae l’attimo, implacabilmente, riporta in quell’istantanea schegge di istanti felici ma presto evaporati oppure echi perduti di parole non dette e di sentimenti non espressi.
Come un profumo la memoria trattiene le sue essenze e le rilascia ad ogni nuova lettura, resta attaccata alle cose e ne rivela a tratti ciò che esse nascondono, come una fragranza che, una volta indossata, rimane a lungo sugli abiti e nel cuore. Essenze suadenti o acri poco importa: gli oggetti della quotidianità, anche di quella più banale o più preziosa e intima, resistono fissati da uno sguardo, presenze destinate a durare più del gesto della mano che le indica, in questo altalenare tra improbabili certezze e transitorietà che è la nostra vita. Nel pensiero di chi le evoca e nella voce che li narra, la nostra, restano invece le cose, i frammenti di vissuto, le idee appoggiate ad un angolo e apparentemente dimenticate, i relitti di un naufragio, la chiosa o il commento di un testo disperso o, con un po’ di fortuna, della musica serena ed acquietante di uno spartito perduto e ritrovato.
È proprio su questo affascinante, ma sottile e fragile, filo che lega visione e memoria che a mio avviso si gioca questa felice stagione dell’inesauribile impegno creativo di Sara Montani.
Ne emerge un'identità dinamica ed elegante, nutrita di tutte le tensioni che caratterizzano il linguaggio contemporaneo, inteso come territorio ampio e articolato, in cui è possibile incontrare differenti modi di trattare l’arte come disciplina aperta alle più imprevedibili soluzioni. La creazione artistica letta come un'esperienza totale, capace di esprimere il piacere delle trasformazioni mentali ed emotive che coglie nel divenire del processo creativo, qualunque sia la scelta stilistica o materica, qualunque siano le direzioni espressive della sua ricerca.
Sara sente quasi il dovere di riaffermare il fondamento della sua pratica infinita, offrendo allo spettatore orizzonti inesplorati di luce, immagini cariche di meraviglia e di soffuso incanto in un mondo in cui le tecnologie cercano di determinare in modo cinicamente asettico lo spazio in cui viviamo e le passioni di cui ci nutriamo.
Il selezionato percorso di questa mostra vigevanese che, non a caso, si pone sotto il segno delle “PERSISTENZE” evidenzia perentoriamente i temi di questo suo solido immaginario creativo: la visione del mondo come verità dei sentimenti, l'espressione dei desideri legati all'inconscio, l'esplorazione della materia come solidità e come misura evocativa dello spazio, la ricerca della luce ai confini del visibile, il valore del frammento visivo come traccia del vissuto, il progetto della forma come dialogo con il mistero, le risonanze del colore in rapporto all’evanescenza del reale.
E, si badi bene, non si tratta di risorgenze episodiche ma, al contrario, di posizioni (pulsioni, mi verrebbe quasi naturale scrivere) pressoché istintive: le fonti della sua ispirazione sono l'atto stesso della visione e tutte le sensazioni mnesiche che accompagnano il corso degli eventi e delle esperienze di vita. Ne costituiscono il lato più puro, sincero e disincantato; parlano senza retorica del tempo che scorre e delle metamorfosi che animano l’interiorità dell’esistenza.
Edoardo Maffeo
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Patrizia Foglia
Montani spiega così il suo omaggio a Sassu: “Cavalli, vento e movimento. E ancora, di Aligi Sassu, colgo colore e matericità. Blu, rossi e arancio si rincorrono. Da La morte di Patroclo ai Dioscuri si impongono con toni accesi, per andare a mescolarsi, definirsi, o addirittura disfarsi, in fondali dalle ampie e aeree campiture di cieli e spazi immensi.”
Il recupero della forza vitale dell’opera del maestro milanese non avviene attraverso una figurazione oggettiva, la narrazione di un evento, la descrizione di un motivo ma grazie alla elaborazione grafica, poetica, sensoriale delle emozioni che le opere stesse trasmettono. È il colore l’elemento che colpisce subito l’occhio dello spettatore, un colore morbido che forma elementi magmatici, acquistando una dimensione tattile sensibile. Montani lascia alla percezione di chi guarda il recupero degli elementi cari a Sassu che lei stessa cita: colore, cavalli, movimento. Nella tecnica del monotipo, che rende unica l’opera, affiora la materia degli inchiostri, che acquista un rilievo quasi mitologico, laddove il colore richiama semanticamente a molte opere eseguite da Sassu nel suo dialogo con il mito. Il recupero allora non è descrittivo, non si tratta di richiamare un soggetto, un tema ma di appropriarsi del segreto che è alla base della creazione artistica. L’avvenire tace… quali strade percorreremo, quale sarà il nostro destino…nelle campiture di colore, nella preziosità della tavolozza, nella sapiente capacità tecnica troviamo il percorso il viaggio “sorprendente, armonico e sofferto” compiuto da Montani in questi anni, l’attività con i giovani, la didattica al servizio della creazione; l’arte non è mero svago ma momento di formazione dell’individuo; l’artista ha ravvisato nell’opera di Sassu questa emozionante forza creatrice facendone la base della sua elaborazione. Montani vuole svelarci il segreto della meraviglia, coinvolgerci nella costante ricerca di nuovi mondi da esplorare, farci partecipi della gioia di descrivere la realtà con un approccio fortemente esperienziale, lasciando che la sua interpretazione poi sia totalmente libera. “Vale la pena di ascoltare e di ascoltarsi” ha scritto qualche anno fa: poniamoci allora in ascolto del linguaggio emozionale del colore e della materia.
Patrizia Foglia, 2017
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«Le strade servono così le macchine fanno le curve». Sara Montani cita spesso questa frase, che figurerebbe benissimo in una nuova Grammatica della fantasia, sentita da una bambina di quattro anni durante uno dei numerosi laboratori didattici tenuti dall’artista. É una frase che, con la grande capacità di spiazzamento di cui è capace l’immaginazione infantile, ribalta il punto di vista sulle cose, aprendo scenari inediti all’espressione creativa.
Non è facile, per l’adulto istruito, recuperare dentro una mente strutturata la spontaneità tipica dei bambini: corrisponde a un percorso quasi di purificazione, infatti, il recupero di uno sguardo ingenuo e puerile (e creativo) in un’età non più innocente. Significa, in altre parole, cercare di tornare a uno stadio primario della conoscenza, da cui acquisire nuovi dati che la maturità adulta potrà poi rielaborare grazie all’acquisita esperienza del mestiere.
Si tratta di una vera e propria “scoperta dell’infanzia”, che abbassa lo sguardo per vedere le cose da un’altra prospettiva con una verginità emozionale.
Non può quindi riservare altro che delle sorprese, da questo punto di vista, mettere nelle mani dei bambini gli strumenti del lavoro degli adulti: sgombrato il campo dalle abitudini di lavoro (che per i bambini non sono abitudini, ma esperienze conoscitive) ecco che gli stessi oggetti possono essere usati in maniera meno canonica con esiti insospettabili.
Sara Montani sa bene tutto questo, anzi ha fatto di questo approccio uno dei punti di forza del suo lavoro. È quasi impossibile, nel tracciare un profilo della sua ricerca, tenere separate l’attività dell’artista da quella dell’educatrice, perché si sollecitano continuamente. Sara, infatti, ha portato i bambini a fare delle esperienze artistiche quasi impensabili proprio grazie a questa scintilla di estro artistico. Viceversa, come artista a sua volta ha imparato molto vedendo i bambini all’opera, usando gli attrezzi del mestiere come gli adulti (da adulti) non si sognerebbero mai di fare.
Ne è un esempio emblematico, documentato a suo tempo anche dalla stampa periodica, il progetto, non privo di audacia, di fare nella scuola dell’infanzia non solo un laboratorio artistico, ma un laboratorio di incisione: Sara aveva avuto l’idea, rivelatasi vincente, di portate il torchio nelle scuole e di far cimentare i giovanissimi allievi sia con la tecnica della xilografia sia con quelle della calcografia.
Non doveva essere un noioso corso di apprendimento delle tecniche delle arti incisorie, perché era sempre chiaro il principio, talvolta dimenticato nel mondo della scuola, che è la materia al servizio della formazione, e non l’allievo in funzione della disciplina da apprendere.
Il torchio nella scuola materna, e così in scuole di altro ordine e grado, doveva essere soprattutto un gioco: un divertimento che faceva scoprire delle cose. Va da sé che qualsiasi oggetto che avesse delle caratteristiche meccaniche adatte, poteva essere lecitamente inchiostrato e stampato, senza la preoccupazione, che i bambini non sentono affatto quanto gli adulti, di trasgredire le regole tradizionali.
Sara Montani, del resto, aveva portato nei laboratori didattici la propria esperienza al torchio: lei stessa, infatti, è la prima a voler provare strumenti, a combinare tecniche, a ibridarle materiali mantenendo sempre una costante curiosità da bambina che, nel fare arte, si diverte.
Non è senza significato, a questo proposito, ricordare che Sara Montani ha una formazione, all’Accademia di Belle Arti di Brera negli anni Settanta, al corso di Scenografia, con quanto questo comporta di apertura verso la sinergia e convivenza di più arti che concorrono ad un unico risultato. Lo scenografo, rispetto al pittore e allo scultore, deve destreggiarsi con la forma e con il colore, deve manipolare e assemblare materiali eterogenei per raggiungere un effetto, preoccupandosi più della resa che della durata talvolta effimera e della fragilità del manufatto. Rispetto all’artista in senso stretto, preoccupato, almeno concettualmente, di avere un’opera da tramandare ai posteri, lo scenografo è forse più libero di mescolare le carte e osare di più.
Sara, anche quando ha cominciato a fare l’artista, non ha dimenticato tutto questo, anzi ha conservato con vigore quella libertà di provare tutto e cimentarsi con tutto. Si sarebbe tentati, anzi, di usare come motto il titolo di un bel libro di Angela Vettese sulle tecniche nell’arte contemporanea che, rifacendosi all’estetica del bricolage, afferma che l’arte attuale Si fa con tutto.
Al contempo, negli stessi anni braidensi, Sara segue le lezioni di Guido Ballo, che si stava interrogando sul concetto di “primario” (da distinguersi da “primitivo”) nell’arte delle avanguardie. Anche questa era stata una felice coincidenza non priva di conseguenze. A distanza di qualche decennio, infatti, l’artista ha conservato le dispense di quel corso di allora, e rileggendo annotazioni lasciate a suo tempo sui margini di quel testo si è resa conto, retrospettivamente, che lì c’erano gli incunaboli delle riflessioni che l’avrebbero accompagnata per tutta la vita. Ad un punto in cui si comincia a fare un bilancio di quel che si è stati, infatti, diventa più facile scorgere delle linee di continuità, pur col rischio di leggere antiche espressioni alla luce di quanto è successo dopo: è pur vero, al contempo, che in quel punto di partenza stavano maturando, senza che ve ne fosse programmatica consapevolezza, le idee che avrebbero trovato nel prosieguo un ulteriore approfondimento.
A questo punto, ci si può muovere su due piani per leggere il lavoro di Sara Montani: da una parte bisognerà cercare di districare il rapporto fra soggetto, sua traduzione visiva e attribuzione ad esso di un senso biografico; dall’altra, non andrà dimenticato il ruolo fondante che in questa dialettica svolge la licenza poetica nei confronti delle tecniche artistiche, o meglio il rapporto fra invenzione visiva e tecnica, fra progetto e accidente.
Viene utile a spiegare il primo punto la serie di opere dedicata alle filastrocche. L’artista si è resa conto che quel vasto e affascinante repertorio, affidato per secoli alla trasmissione orale, non ha più lo stesso ruolo che aveva ancora ai tempi della sua infanzia: quel tramando rischia di interrompersi, con notevole perdita per la cultura collettiva. Allora, come un’antropologa, ha cercato di radunare filastrocche provenienti da culture diverse e ne ha fatto oggetto di elaborazione artistica. Le opere che ne ha tratto, tuttavia, non sono illustrazioni delle singole filastrocche, bensì mantengono con queste un rapporto aperto: l’opera non deve riproporre in modo palmare il contenuto verbale, ma evocarlo dentro un contesto astratto. La filastrocca degli elefanti che si dondolano su un filo di ragnatela, per esempio, diventa una costellazione di frammenti di carta colorata applicati sulla tela (gli elefanti) e tenuti uniti, letteralmente, da un filo di tessuto (la ragnatela): una relazione fra i due elementi esiste, ma richiede uno
sforzo di astrazione. Allo stesso modo, il profilo del bastimento che arriva carico di oggetti misteriosi è diventato un frammento di corteccia, la cui sagoma evoca il bastimento, applicato sopra un fondo nero uniforme. Sara procede quindi per addizione di elementi sulla tela, seguendo un’intuizione che si scopre strada facendo: se l’intento di partenza è programmatico (lavorare sulle filastrocche oppure sui personaggi delle fiabe in altri casi), la soluzione è libera e fatta per associazioni. Anche nei momenti di più ardita sperimentazione, infatti, il suo lavoro non è mai progettuale: segue un’idea, ma non pianifica la sequenza delle operazioni; anzi, meglio ancora, pur partendo con un’idea, è sempre disposta a lasciarsi stupire dalle sorprese che la reazione della materia può riservare. «Non importa di rispettare il progetto», mi diceva Sara in una delle nostre lunghissime conversazioni, perché sarebbe un imporsi un vincolo e farsi soffocare da questo: fermare le idee, mi dice, limita sempre la creatività, contraddicendo la stessa funzione del disegno, preliminare a ogni operazione artistica, che invece «aiuta a sviluppare il pensiero».
Ne è un bell’esempio la serie di opere calcografiche dedicate al Tangram, che l’artista ha disegnato a puntasecca su una matrice di argento e poi stampato. Successivamente ha tagliato la matrice in più pezzi, poi singolarmente inchiostrati con modalità diverse e variamente ricomposti di volta in volta secondo le regole del gioco per costruire nuove figure prima di passare per il torchio: è uno scomporsi e ricomporsi della forma, un mettere assieme e disfare, secondo le regole del gioco. La regola, però, ha in sé una struttura libera, come nel tangram appunto: data una serie di elementi predeterminati di cui servirsi, resta poi la libertà di combinare gli elementi sul piano. Si sarebbe quasi tentati di pensare a certe sperimentazioni di arte programmata degli anni Sessanta e Settanta, in cui si chiedeva al fruitore di muovere gli elementi magnetici sopra una superficie metallica.
Si vede che il caso gioca una parte non trascurabile, ma di concerto con l’occhio che sa cogliere la novità sul momento e darle un valore semantico, come nel dittico Operosità, acqueforti su ottone dedicate a La cicala e la formica, con la loro impressione di “dripping” tradotta in matrice calcografica. All’origine c’è un evento accidentale: una macchia di colore capitata per caso è stata impressa dall’artista sulla lastra, ottenendone un negativo da trattare all’acquatinta. A quel punto, però, il gioco non è finito: la lastra poteva essere inchiostrata in cavo e in piano, variando gli effetti secondo combinazioni di procedimenti potenzialmente infinite. Solo in un secondo tempo Sara si è accorta che quelle due immagini, pur essendo motivi astratti, potevano raffigurare la favole di Perrault.
Discorso analogo vale per le acqueforti dedicate a Cenerentola, costruite come dei generali di Enrico Baj, secondo un procedimento di montaggio. L’immagine è stata composta applicando alcuni frammenti di pizzo su una matrice di cartone, poi inchiostrata e stampata su lastra di ottone, in modo da riportare l’immagine in negativo, da acidare poi all’acquaforte. A questo punto, Sara Montani ha ottenuto un’immagine, o meglio la sinopia di un’immagine che può prestarsi a ulteriori arricchimenti degli effetti di superficie, per esempio attraverso l’uso di carte colorate, oppure stampando alcuni esemplari di quest’opera calcograficamente e altri xilograficamente, o mescolando i procedimenti, di modo che il rullo riempia gli “alti”, ovvero le superfici in piano che nel procedimento tradizionale sarebbero rimaste chiare perché non inchiostrate, a differenza del disegno, inchiostrato come da manuale.
Non è possibile, ovviamente, programmare un lavoro del genere: molto avviene direttamente sotto il torchio, o poco prima di imprimere la lastra sulla carta. E spesso, anzi, è la mescolanza degli elementi che si hanno sottomano, con la curiosità alchemica dello sperimentatore, a spingere verso nuove soluzioni.
È alla fine di questo percorso, allora, che Sara Montani approda al suo Omaggio a Depero. Le opere di questa serie, in realtà, sono quelle più semplici da un punto di vista operativo rispetto agli esempi precedenti: la “figura” architettonica, che si ripete in ogni opera, è ottenuta mascherando sulla lastra le parti di sfondo della composizione, secondo un procedimento concettualmente non dissimile da quello della camera oscura. Una volta ottenuta la matrice, però, la combinazione di inchiostrature xilografiche e calcografiche sulla solita lastra di ottone, di volta in volta con colori diversi (e più colori per volta), permetteva un’infinità di varianti, dalle lastre più infiammate a quelle più notturne, da motivi che sembrano controluce ad altri immersi in atmosfere incandescenti o rugginose. In questa serie vengono chiariti alcuni aspetti importanti: da una parte la possibilità di lavorare sulla serie operando una quantità di variazioni pressoché infinita; dall’altra si comprende quanto la matrice calcografica sia veicolo di un’immagine ancora virtualmente incompleta, capace di prendere vita, a dispetto di un’utopia di moltiplicazione dell’immagine sempre uguale a se stessa, sotto sembianze sempre diverse. E alla radice di questo, oltretutto, stava un paradosso di fondo: Sara Montani ottiene questo risultato, come già prima nelle Cenerentole e in altre serie, annullando l’intervento diretto della mano (è impossibile riconoscere un particolare tipo di segno riconducibile a una specifica grafia), ma con un procedimento completamente artigianale. Rimane così su una via intermedia fra la meccanizzazione (l’operatività che passa solo attraverso strumenti tecnici) e artigianalità delle operazioni. Tutto questo, probabilmente, avrebbe divertito un artista come Fortunato Depero, in cui Sara Montani, approfondendone la vita e le opere negli ultimi decenni, ha riconosciuto un proprio maestro d’elezione. Il futurista di Rovereto non è stato, per lei, una folgorazione di gioventù, ma un incontro a distanza avvenuto nel momento in cui si cercavano le ragioni del lavoro che si era fatto. Una volta conosciuto meglio il suo lavoro, specie dopo la retrospettiva di lui curata da Maurizio Fagiolo dell’Arco nel 1988, Sara si è riconosciuta a posteriori in quell’esperienza: Depero era un artista che aveva fatto del gioco uno strumento principe del fare arte, elevandolo a una profonda dignità estetica. Oltre questo, mi faceva notare, egli sapeva lavorare “a pezzi”, elaborando singoli elementi, per poi radunare le parti. In questo modo, Depero è diventato una stella fissa del problema, a lei così caro, del rapporto fra arte e gioco: nel suo percorso ha ritrovato qualcosa di sé, come avesse recuperato il bandolo della matassa della propria esperienza.
È quanto ha voluto fare con la sua ricerca artistica, che si dispiega come un grande diario, ma tenendo per sé la licenza di mescolare le carte e narrare le cose senza dover seguire una cronologia. Era tutto riassunto in un appunto che Sara aveva preso prima di uno dei nostri incontri, che in estrema sintesi poteva apparire un vero programma di intenti: «Raccontare la vita “per frammenti” dove il quotidiano si mescola al gioco, al sogno, all’ironia; l’accento spesso è anche posto su una filtrata denuncia di “cose”: un partecipato commento sulla condizione umana».
Luca Pietro Nicoletti, 2015
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Chiccolino dove stai?
Sotto terra, non lo sai?
E là sotto non fai nulla? Dormo dentro la mia culla. Dormi sempre, ma perché? Voglio crescer come te!
E se tanto crescerai Chiccolino che farai?
Una spiga metterò
Tanti chicchi ti daròSara Montani non è nuova a lavorare sul tema dell’infanzia. Il mondo dei bambini, frammisto alla memoria della propria infanzia, era già entrato in altre sue precedenti serie di lavori, come presenza evocata in assenza. Il discorso sviluppato in questo libro d’artista, però, si complica sia da un punto di vista linguistico sia fenomenologico o, più semplicemente, per via delle implicazioni chiamate in causa. La filastrocca stessa, come genere letterario, si presta a una moltitudine di punti di vista.
Il “chiccolino” di grano a cui si rivolge il testo è un termine intenzionalmente ambivalente: con il suo diminutivo affettuoso non fa che accentuare il parallelismo fra il chicco in attesa di diventare spiga e il cucciolo d’uomo, a cui pure potrebbe essere attribuito quel nomignolo come vezzeggiativo. Il confronto, o meglio l’associazione di idee, non è dichiarata, ma salta subito all’occhio del lettore: il chicco di grano dorme nella culla, come qualsiasi neonato accudito e protetto. Va da sé che la neonata spiga e la semente umana abbiano in comune, più di ogni altra cosa, una crescita potenziale. L’uomo “matura”, come la spiga, alla luce del sole, e in questo accentua la propria sete di vita, e di vita gioiosa. L’operazione visiva, in casi come questi, non può che oggettivare la metafora, cioè rendere visibile il linguaggio e invitare a riflettere, tramite questo, su quanto certi significati traslati siano radicati nelle nostre espressioni verbali più comuni. Sta poi alla sensibilità dell’artista scegliere cosa mettere in evidenza e i mezzi per veicolare il suo commento visivo.
In questo caso, Sara Montani si è servita di un doppio registro: della fotografia e dell’incisione. Si sarebbe potuta servire, forse, del disegno, ma avrebbe corso il rischio di cadere nell’illustrazione, vanificando il carattere performativo che connota invece questa serie. Nulla, verrebbe da pensare, oggettivizza più di una fotografia: la foto, si dice, riporta fedelmente quello che c’è. Ma quello che vede l’occhio fotografico, in questo caso, è stato costruito dall’artista in modo che l’azione interpreti quel contenuto della filastrocca: basta mettere nelle manine di una bimba qualche spiga per provocare il cortocircuito fra i due elementi ed instaurare il dialogo. E non può che suscitare un’immediata tenerezza questa immagine così intima e domestica: in questo senso, il commento visivo dell’artista offre una colorazione emotiva al testo, ne condiziona la lettura.
Per questo Sara Montani intermezza gli interventi fotografici con pagine realizzate a torchio calcografico, con successivi interventi ad acrilico e matita per arricchire pittoricamente le impronte delle spighe lasciate per impressione a stampa, infine combinate con alcune frasi della filastrocca applicate a mano tramite stampini. Per Sara Montani, infatti, la calcografia non ha segreti: l’artista sa bene che quasi ogni oggetto può diventare matrice per la stampa, che ogni oggetto può lasciare un’impronta e, con questo, una presenza immediata, per certi versi oggettiva. Le pagine grafiche, però, fanno da contrappunto: la filastrocca si dipana da una pagina alla successiva, fra slarghi narrativi (le fotografie) e commenti pittorici (le stampe) su cui corre il testo.
È in questo modo che Sara Montani trova una propria via per ridare vita a un genere antico, tramandato per tradizione popolare orale e che, come tutte le tradizioni affidate alla viva voce, sono le più soggette al mutamento sociale: la scrittura avvisa del rischio di perdita di questo patrimonio e cerca di preservarlo. L’immagine sta a spiegarci perché ne valga la pena, e ci ricorda come nella semplicità ci sia un fragranza genuina di cose autentiche, che non vanno perdute.
Luca Pietro Nicoletti, Milano, settembre 2013
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Il lavoro di Sara Montanti viene incluso nel testo di educazione artistica per la scuola media Arte Mix - Laboratori di arte contemporanea
Zaffaroni, Ed. De Agostini
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Le particolarità dell’opera di Sara Montani si collocano all’antitesi di una certa deriva individualista e nichilista dell’arte contemporanea. La sua poetica si radica in una fiducia nel lavoro collettivo e pluri-disciplinare che è la diretta eredità di esperienze importanti, come scenografa e come insegnante. Quindi la pratica simultanea della pittura, della scultura e dell’incisione non si risolve in un vuoto eclettismo ma si traduce in immagini ricche di tracce e rimandi, in uno scambio reciproco di materie e processi.
In alcuni decenni di attività artistica e didattica, Sara Montani ha sempre posto coraggiosamente in discussione se stessa, le convenzioni dell’insegnamento e le norme delle tecniche.
Ha sperimentato sui vari linguaggi spingendoli ai limiti. Mediante incessanti sovrapposizioni e colte contaminazioni, ha accolto nelle sue opere sia il proprio vissuto che oggetti reali, ma ha anche saputo astrarne ritmiche trame, incantevoli cromie e magiche visioni.
Nel difficile equilibrio tra un’attitudine estroversa e comunicativa e un registro introverso e intimista, ha sempre perseguito un metodo chiaro eppure paradossale: una necessaria sfida al caso e una sorta di gioco degli elementi che infine si ricompongono come in un puzzle. E ancora oggi - come testimonia questa tappa - procede lungo questo cammino di conoscenza di sé e dell’altro, alimentato dall’emozione e dallo stupore di fronte ad avventure e scoperte sempre nuove.
Sara Fontana, 2008
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Una matrice, gli inchiostri, i rulli, il torchio e i fogli per la stampa: questi i protagonisti in gioco nel lavoro perché siamo nel laboratorio di incisione dove la ricerca empirica, la sperimentazione, anche l'errore come il caso costituiscono gli ingredienti e le incognite fondamentali dell'agire artigianale. Approssimativamente questo avviene in tutti i laboratori dove la macchina e la manualità convivono in un connubio oggi difficilmente frequentabile, ma Sara Montani da anni “trasgredisce” le regole consegnate dalla tradizione: in effetti non esistono limi ti alla ricerca di nuovi materiali e procedure e, oltretutto, la stessa storia dell'incisione è composta, dalle origini, da tante “violazioni” operate dagli artisti, oggi fra i più celebri, rispetto alle norme ereditate: ma questa è circostanza che esula dal presente ragionamento rientrando in quel ciclo di langue e parole, di “norma” e “uso” che appartiene a qualunque linguaggio espressivo. Montani, oltre a adottare lastre metalliche dell'attrezzatura consueta, “inventa” le sue matrici, rende “lastra”, proponibile alla stampa, materiali eterogenei e immediatamente non imparentabili a tale uso, come frequentemente la stoffa, il tessuto, il perspex: e l'elenco è inevitabilmente aperto perché sembra accettabile la filosofia che “tutto” possa diventare “causa” per un effetto sulla superficie stampabile. Allora, senza entrare nel merito di un dibattito, ormai annoso, fra ortodossia e eterodossia, fra conservazione e innovazione nel modo di realizzare matrici o stampare, il problema mi sembra debba essere collocato a un livello diverso, quello della stretta connessione, anche interscambio, fra le tecniche operative adottate. Negli anni l'artista ha adottato il “monotipo” e soprattutto la “monostampa”, tecniche discusse in altri contributi del catalogo: soprattutto la seconda, che prevede il riutilizzo della medesima matrice diversamente inchiostrata a ogni passaggio del torchio permette la realizzazione di “varianti” cromatiche al singolo esito che possono andare dalla differenza minima fra esito e esito alla quasi irriconoscibilità fra le prove. Le diverse inchiostrature sono precedentemente progettate, l'ultimo esito realizzato costituisce lo stimolo per un suo mutamento partendo dall'elementare accentuazione di quanto precedentemente depresso: si tratta di un singolare dialogo fra la prova precedente e quella immaginata perché certamente il mestiere può prevedere ma esiste, nella pressione del torchio e nel comportamento del colore un quanto di interrogativo circa il risultato finale che si potrà sciogliere solo al momento di liberare il foglio impresso. Ecco il ruolo del caso cui si è accennato in esordio. In una serie dedicata alla Mia Africa di Karen Blixen Montani, dopo un repertorio di soluzioni che abbassano o esaltano la “pelle” della matrice adottata, ha riportato il tutto anche in calcografia, chiudendo in questo modo, momentaneamente, il ciclo delle sperimentazioni.
Due mi sembrano i temi su cui riflettere nell'affrontare il lavoro, la scelta del soggetto e quella dello strumento con cui presentarlo come opera autonoma: sembrerebbe una riflessione ovvia visto che di arte figurativa si discute ma la storia, per fortuna non lineare della ricerca artistica, ha negli ultimi decenni offerto alternativamente tanto un privilegio all'uno e all'altro polo della questione. Nel nostro caso i due aspetti sono in costante dialettica, dove l'invenzione, la “scoperta” appartiene a entrambi i registri. Non a caso Montani nell'operare procede anche alla violazione esplicita della convenzione impaginativa dell'incisione, dove il segno di scontorno perde il suo ruolo tradizionale di “soglia” invalicabile fra foglio vergine e superficie incisa per essere diversamente aggredito da sovraimpressioni che rendono labile il confine. I “soggetti” di Montani appartengono alla sfera del quotidiano: sono principalmente “oggetti” reali, dotati di una dimensione che appartiene alla realtà, in scala uno a uno, perché direttamente il loro corpo diventa matrice per l'opera: come si è detto non vi è, se non limitatamente, “rappresentazione” bensì “presentazione” attraverso la forma nello spazio che il soggetto acquisisce una volta reso rigido dalle colle e sottoposto alla pressione variabile del torchio, frammenti che assumono sul foglio il ruolo di protagonisti. Un ragionamento sulla traccia: e l'impronta come l'usura dei materiali costituiscono inevitabili “indici” che occorre però registrare: Montani mette in evidenza figure altrimenti perse a una osservazione superficiale o magari attenta al contenuto e non alla forma.
Un soggetto marginale, o meglio complementare: l'arredo del corpo, dall'attrezzatura del neonato a quella variegata dell'adulto, inconsueto nella sua posa come oggetto deposto su un piano: una ”natura morta” se non venissero a cadere le coordinate spaziali in cui l'oggetto è tradizionalmente collocato, in una “messa in scena” dell'oggetto che pure Montani ha in escursioni recenti affrontato: si veda al riguardo il ciclo In scena del 2005 o le installazioni degli anni precedenti documentata nell'esposizione Sosia d'ombra al Castello Visconteo di Trezzo sull'Adda del 2003. La “bella forma” che il frammento del reale, o il soggetto integro ma diversamente composto, sono allora in grado contemporaneamente di alludere alla propria precedente storia, al loro uso, come suggerire altre fisionomie, in una catena di associazioni che permette un singolare gioco di fantasia.
Alberto Veca, Tracce e rimandi, (Officina dei Carrubi, 2008).
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Avete mai visto i bambini mentre aspettano che il torchio restituisca lastra e foglio dai rulli che stanno girando? Occhi spalancati, bocca aperta. E, soprattutto, silenzio. Possono essere anche trenta bimbetti di una scuola materna ma quando girano quei rulli nessuno si muove. Tutti aspettano la magia dell'impronta che dalla lastra incisa passa alla carta. Stiamo parlando d'incisione. Cose da libri di storia dell'arte. Complesse per i bambini. Però, se sulla lastra ci mettete una fiaba, disegnata proprio da loro e se a raccontare come si fa c'è Sara Montani, quell'arte da adulti diventa un gioco serio. Serissimo perché si usano strumenti importanti, si creano matrici come veri artisti intervenendo, per spessore o per incisione, su lastre di cartone, rame o plexiglas. Si raccontano storie provando tante tecniche proprio come in una bottega d'arte. E intanto si progetta e s'inventa, si gioca con le parole e con le forme. Il risultato incanta. I segni graffiati sulla lastra o i pezzetti di carta, tessuti, foglie appiccicati sono davvero il naso di Pinocchio, la finestra della casa o i rami dell'albero. “Appena sperimentano che l'effetto di una foglia, combinato con quello di un pezzo di scotch, può creare un'altra immagine si sbizzarriscono a cercare altri effetti. Scoprono che ogni volta nascono forme diverse». L'invenzione passa da un bambino all'altro. “E se ci metto il tulle?”. “E se provo con la carta di caramelle?”. “E se stampo sul tovagliolo? O sopra una pagina di libro?”. L'eccitazione si stempera per diventare concentrazione e vedere che cosa succede. “Come hai fatto a ottenere quel fiore?” E magari a chiederlo è proprio un adulto, a cui una cosa così bella non è venuta.
Sara è un'artista e lei stessa gioca con i suoi lavori ma non sì accontenta della dimensione solitaria della ricerca artistica. Le piace mettere a disposizione le sue esperienze e le sue emozioni sapendo che in ciascuno una creatività che ha bisogno di trovare spazio. «Manipolando materie e colori io ho scoperto le mie forze e le mie debolezze. Ogni linguaggio che sperimento mi fa riflettere. Cresco, trovo nuovi punti di vista per interpretare la mia vita. In poche parole: mi capisco. Anche per un bambino la creatività diventa un percorso formativo per conoscersi e imparare a scegliere. L'incisione, coinvolgendo il fare, il pensare e il vedere insegna a mettere a punto le fasi di un progetto sia creativo, sia della propria vita».
Anche le mostre e le installazioni di Sara sono racconti in cui le matrici vengono incise prendendo sagome e forme a prestito dalle cose. Piccole mani che inseguendosi disegnano la forza di gravità ci parlano di guerra. Bavaglini, fasce, cravatte, camicie di forza narrano dei nodi che ci limitano e del bisogno di slegarsi per esser individui. E lei si slega non limitandosi a stampare sulla carta ma cercando tutto quello che può lasciare un'impronta, per imprimere su qualsiasi materiale sia pure gesso o tessuto. Ogni suo lavoro è sperimentazione. Sara insegnava educazione artistica alle medie ma i programmi le andavano stretti e ha lasciato la scuola. Ora, con l'Associazione Roberto Boccafogli, che promuove l'arte come mezzo educativo: propone laboratori di stampa a cui partecipano persone di tutte le età, dai bimbetti dell'asilo agli studenti appena usciti dall'Accademia. «Il torchio consente infinite opportunità di sperimentazione creativa», dice. «Utilizzare in modo personale tecniche così antiche e poco conosciute è un'enorme gratificazione. Se c'è un errore si corregge modificando o inchiostrando ancora la lastra. La matrice è come una mamma che ha tanti figli, hanno tutti lo stesso cognome ma ognuno ha un suo nome. E così i bambini finiscono per chiamare la lastra “madrice”
Si parte sempre da una storia inventata raccontata o fatta raccontare dai bambini. Spesso è frutto di una ricerca. Un vero lavoro di documentazione per identificare i personaggi o per scoprire [a città, il quartiere o un museo e trovare le immagini per descriverlo. Ci si documenta fotografando. Possono essere certe esse, una piazza, il bosco oppure i faraoni che dai loro troni raccontano la civiltà egizia. Si preparano i bozzetti e sì trasportano sulla matrice. Ma come? «Spiego cos'è un'acquaforte, una puntasecca, una linoleumgrafia. E tutti gli altri segreti dell'incisione, riflettiamo per non farci male sugli arnesi difficili come le punte. Con i piccoli usiamo vinavil per tracciare il segno o lavoro io con punte o acidi il loro disegno fatto a pennarello. Saranno i bambini a scegliere la tecnica con cui sono in sintonia». Che cos'è un albero? Un grande rettangolo e tanti piccoli rettangoli. E come si fa un bosco? Mettendo insieme gli alberi di ogni bambino. E se non stanno sul foglio? Si compongono altre pagine. Naturalmente ci sono delle regole. Sono le tecniche a dettarle. Lo spazio dei foglio, le punte che in base alle forme [asciano segni diversi e il.torchio: si può mettere qualsiasi cosa per fare una matrice ma deve passare sotto i rulli. Ma il bello del momento artistico è che c'è la possibilità di trasgredire. «I rulli con cui si Ungono e matrici devono poi scompiglia tutto. «Il bambino col rullo blu può inchiostrare nel rosso e quello con il rosso nel giallo». Un'altra magia:viola e arancio. E una conseguenza pedagogica lo regole sono importanti per imparare le tecniche ma poi si scopre che, conoscendole, si possono rompere gli schemi ed esprimersi in modo individuale.
Si può costruire un calendario in cui ogni bambino rappresenta un mese o un insieme di cartoncini che raccontano Cappuccetto Rosso o il Piccolo Principe. Uofferto finale e sbalorditivo. Un libro d'artista o una cartella riuniscono il lavoro del gruppo. Un oggetto di valore, unico, e per nulla inferiore a quelli degli artisti veri. «Ciò che importa, però, è che attraverso l'esperienza i bambini scoprono quanto è importante lasciare un'impronta di sé». Picasso diceva: “In ogni bambino c'è un artista, la sfida è rimanerlo tutta la vita” “Avete notato la forza espressiva dei disegni dei bambini?”, chiede Sara. “Con il rosso fanno un veloce segno dentro a cui vedono un mondo. Difficile per un adulto pure se è un artista. A me piace rubare l'essenzialità e l'intensità di quei gesti, i bambini si stupiscono dei loro lavori che escono dal torchio. E anch'io mi stupisco ogni volta che il torchio mi restituisce l'impronta dei miei pensieri”.
Luisa Pronzato, (Pubblicato su Insieme - Rizzoli, Aprile 2006)
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Le "DISsonanti CONSONANZE" di Fausta Dossi e Sara Montani
È frequente sentir parlare - o leggere - di conflitti generazionali: meno consueto è il caso d'una sintonia tra generazioni, d'imbattersi cioè in testimonianze d'un loro fattivo con- sentire. Questa mostra ne è un esempio. Nasce da un giovanissimo poeta (che tuttavia mostra di possedere la saggezza che un tempo era prerogativa conclamata degli anziani) e da due artiste, in età matura l'una, nell'età di mezzo l'altra, che entrambe hanno conservato fresche capacità di stupore e d'entusiasmo precipue della fanciullezza. Una situazione, quindi, felicemente anomala e proficua, produttiva di stimoli reciproci e di rare occasioni di collaborazione. In particolare nel senso chele due artiste hanno lavorato insieme, per il piacere di fare, senza condizionamenti vicendevoli, e senza venir sfiorate dalla tentazione di prevaricare: talvolta all'unisono, tal altra rispecchiandosi in un confronto che sottolinea punti di contatto e differenze (consonanze e dissonanze, appunto).
L'idea della mostra (che viene riproposta in più sedi, con le varianti nell'estensione e nell'allestimento che i diversi spazi espositivi suggeriranno) è nata da una luminosa scheggia poetica di Giulio Zalvisi, dal titolo "Necropoli II": "Chi può respira / in silenzio senza farsi sentire". Ciascuna parola di questa sorta di haiku è stata fissata su una lastra combinando variamente differenti tecniche incisorie, stampata su più fogli con sensibili variazioni d'inchiostratura - e quindi di risultati, diversi come diverse sono le personalità degli osservatori che possono scegliere in quale prova riconoscersi - e disposta iterata.
Le sedi espositive suggeriranno la distribuzione spaziale dei fogli, tra la proposta di poesia visiva e l'installazione.
A variazioni di percorso corrispondono letture diverse; costante è comunque l'idea di un tragitto compiuto tra i cippi d'una necropoli. Cinque "scatole nere" evocano personaggi di generazioni passate: vecchie lastre fotografiche in vetro sono raggruppate per affinità di soggetto in pannelli neri illuminati dall'interno: compaiono lontane immagini di vita, come sindoni di chi è stato, e il cui respiro (non) possiamo ora avvertire. Appese alle pareti lunghe strisce di carta propongono monotipi, nero su bianco, che richiamano stendardi estremo- orientali, di preghiera e di lutto, e lati di totem, dalla misteriosa, arcaica sacralità.
L'invito al silenzio viene ribadito. La Bibbia insegna che il silenzio è la voce di Dio. Preesistente alla creazione, esso tornerà alla fine dei secoli. Il silenzio ci consente l'ascolto di voci sommerse: anche di quelle che giungono dal profondo di noi stessi. In questa mostra ci conduce, tra l'altro, all'ascolto dei dialoghi tra Fausta Dossi e Sara Montani, oltre che delle loro dissonanti consonanze e consonanti dissonanze.
Vengono esposte opere dell'una e dell'altra, e fogli eseguiti a quattro mani. Alcuni presentano immagini pressoché speculari (talora derivanti da una lastra spezzata a metà, lavorata dalle due artiste l'una indipendentemente dall'altra, e tuttavia con sorprendenti continuità di discorso; talaltra una medesima matrice è stata trattata sui due lati, dalle due artiste, l'una dopo l'altra).
Il confronto diviene in questi casi diretto e ci consente di cogliere palesi somiglianze e specificità individuali. Fausta Dossi mostra maggior propensione per la gestualità: compaiono spesso solchi e raggiere, mentre Sara Montani rivela il suo interesse per la matericità, per gli effetti pittorici, non di secondo momento rispetto alla potenza del segno. Se l'una quindi predilige contrasti accentuati, una dialettica esplicita e decisa di bianco e di nero, l'altra mostra di apprezzare modulazioni intermedie, con varie granulosità, più o meno fitte, o sottili, o estese, o intense di "colore".
Nelle aree incise da entrambe le artiste compaiono zone di bianco puro, semanticamente differenziate.
In Fausta Dossi presentano caratteristiche di lacerazioni, strappi o ferite che siano (ma a volte sono solo squarci di luce): per Sara Montani sono piuttosto delle soglie. Le sue forme d'insieme non di raro suggeriscono l'idea di un edificio, di una "casa" (anche le "scatole nere" divengono "case dei trapassati", cioè necropoli d'immagini); così le sue macchie bianche richiamano l'idea di un passaggio: qualcuno può affacciarsi, osservarci, inviarci messaggi.
La bidirezionalità di percorso attraverso una porta c'invita a riflettere sulla possibilità di comunicazione tra dimensioni diverse, seppur non opposte: luogo di passaggio tra conosciuto e incognito, frontiera del mistero e del sacro, la porta costituisce anche un invito a procedere "oltre".
In alcuni fogli di Sara Montani compare anche una serie di "finestre" rettangolari in cui si affacciano... piccole, raffinate incisioni di Fausta Dossi, riproposte anche in un libro d'artista. E' un'altra forma d'integrazione, ancor più che dialogo, tra le due amiche.
[...] Il dialogo tra generazioni da cui ha tratto vita questa mostra si rivela esteso alle generazioni che ci hanno preceduto, nel dovuto silenzio, ma all'insegna del sorriso.
Per Hermann Hesse "ogni sublime umorismo comincia con la rinuncia dell'uomo a prendere sul serio la propria persona".
Se ciascuno di noi desiste dal considerarsi il centro dell'universo per vedersi piuttosto come una goccia d'acqua nella corrente d'un grande fiume, si sarà tutti disposti a sorridere anche della propria transitorietà.
Sorprendentemente, le barriere che costruiscono il nostro isolamento scompariranno, e ci troveremo inseriti in una continuità sottratta alla gabbia del tempo. "Lo spazio trapassa nel tempo come il corpo nell'anima" asseriva Novalis.
Respirando in silenzio, e sorridendo, possiamo riprendere rincuorati il nostro cammino.
Pier Luigi Senna, Misia CD (MPE Monconi Pejrano Editori, 1998 Milano)
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Da Stépahne Mallarmé a Dylan Thomas e fino all’oggi “tutti gli altari a forma di civetta” accettano cerimonie sacrificali che riducono sempre più l’arte al vuoto pneumatico descritto. Molti di noi hanno capito che compito dell’artista (se ancora armato di pennello) è, molto semplicemente e oltre qualunque problematica imposta, quello di perpetuare l’esistenza del manufatto artigianale. In un parola: la pittura dipinta versus il concetto proposto.
Questo non significa necessariamente che l’espressione concettuale debba essere messa all’indice con valenza trionfante dell’espressione retinica; la scacchiera dell’arte è l’unica superficie dove è possibile muovere il bianco o il nero (prima mossa) indifferentemente. Quando apprendiamo che il travolgente Majakowsky puntualizzò (il tenero Pasternack ne fu sorpreso) la differenza tra due scariche elettriche (in)eguali non condanniamo né il fulmine nel cielo né la vampa del ferro da stiro casalingo.
Il totale dell’immagine prevede che tutti gli estuari del dipingere scorrano verso battigie variegate, altre dai mari chiusi dai saccenti.
Ma un mio penchant per un’arte (?) ancora scritta con la setola, bandiera e spade per un tempo, mi fa prediligere quei quadri dove mano e colore, in coro e in cuore, lasciano trace per vive soglie.
Sara Montani, tra gli artisti amici, è colei che a mio parere più si ostina a dipingere immagini del “Garbo”. Il Garbo, con la Gentilezza bene insigne, sempre meno alberga alle cimaises. Dove il volgare batte rumoroso Sara Montani propone l’armonia dove la legge obbliga i pops a urlare Sara Montani sussurra, volatile nell’oltre.
Ma nella sua pittura è anche presente qualche legittima preoccupazione: sappiamo bene, e lei ce lo conferma, che il cespuglio invitante del corbezzolo cela, a volte, il morso velenoso. Però, quando tutto sarà contaminato, potremo usare come antidoto lo sguardo; e le chiavi del cuore, il belvedere, le evocazioni stordite di memoria tracimeranno dagli occhi detti al cuore, questo cuore mai abbastanza nominato: il
cuore, Cuore, CUore, CUOre, CUORe, CUORE.
In alcuni dipinti, in questa mostra, sono complici, in un crimine d’amore, un orafo e un fotografo a conferma che le individualità possono concorrere per la riuscita di un TOTALE che ancora una volta valorizzi il prodotto “mental-artigianale”.
Specchi, chiavi, memorie, tracce, soglie, si evidenziano, nodi reali o iperreali, ricavandone, lo spettatore attento, musiche proprie, radars di ombre per soli non segreti. Anche il computer, di cui tanto oggi si parla, di cui parecchi artisti si ingegnano a cercare la sua meccanica anima segreta, è usato (ma pare accarezzato appena) da Sara Montani; senza il pericolo, comunque che ne risulti, dall’impiego detto, una medusa glaciale e intrasparente. Sara Montani evoca, irrequieta: è un’artista che ancora intitola i suoi quadri. Nulla qui può definirsi “ composizione”, tale parola significando spesso “imprecisa disattenzione al fare”. “Ma come ci si muove irrequieti, sempre a cercar quel che si è trovato” intitola l’autrice un turbinio dove ruota in bruni cupi e gialli accesi la chiave, segno eterno di scoperta. Le sue “ Tre porte” strette e non anguste invitano a passare oltre, nuova Alice...
In un autunno, l’ennesimo, di brune, la memoria di azzurro non sacrifica.
Il vuoto pneumatico è sconfitto da un ventaglio garbato di colori.
Saranno estuari al golfo le rose dell’inverno, senza il timore di volatile notturni, tutti gli altari sono parati a festa.
Sergio Dangelo, Nodi… in reale e virtuale (MPE Monconi Pejrano Editori, 1997 Milano)
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Vi è mai venuta l'idea di stare in silenzio, fermi, senza più nulla dire, non perché vuoti di idee ma perché sazi delle troppe idee che il mondo di oggi propone? Così m'è capitato, giorni or sono, e me ne stavo a «pensare il silenzio», quando Sara Montani - cui mi lega anche l'ammirazione per le sue qualità d'umanesimo sociale - mi ha chiesto queste poche righe. Così ho visto, di suo, più di quanto avevo gustato alle mostre, che sono solo la punta dell’iceberg.. Addentrandomi nelle sue molte ricerche mi sono accorto che - è vero - oggi c'è troppo di tutto, oggi viviamo un Manierismo (con le medesime decadenze socio-economico-politiche del Cinquecento in Italia) in cui tutti esprimono se stessi, e le correnti dell'Arte sono tante quanti sono gli esseri umani sulla terra; però c'è qualcuno che lo è meglio de¬gli altri, o degli altri lo sa meglio dire, ed allora egli mi riconcilia con i troppi ismi, i troppi lavori, i troppi pittori, i troppi di tutto! Perché non basta dipingere, occorre che nella pittura si esprima, che quella pittura non sia la ripetizione poco più a destra o poco più a sinistra di quanto è stato già detto dieci minuti prima. Occorre che in quella pittura ci si senta l'essere umano, i suoi sogni, le sue speranze, ecco: il compito dell'artista oggi è di darci sogni e speranze, perché la tecnologia, il consumismo e gli egoismi politicoidi proprio questo ci hanno tolto. Oggi i bambini non hanno più fantasia. Ben pochi sono in grado di mantenere in loro l'amore per la favola e per le favole dell'Arte. Sara Montani conosce i bambini, ama i bambini lavora per i bambini, ed è riuscita - oggi questo è un miracolo - a mantenere intatta quella sua anima di bambino che è la nostra parte psichica dell'inconscio libero-positivo-creativo. Ecco allora il suo ridire di tessiture astratte in cui tuttavia è dato largo spazio alle possibilità del sogno, alla visione individuale, alla costruzione d'una parte di noi come specchio in cui ci si specchia. Ed ecco, insieme alla superficie-specchio, la delicatezza sognante e fragrante d'un colore-linea-conduzione-memoria su cui adagiare le nostre fantasie. Ed ecco i temi-guida: Fede, Speranza, Carità, oppure sogni e immaginifico e il divino, di là dai limiti, di là delle barriere, di là delle convenzioni codificate. Il preconcetto è bandito, così come è bandito il ruolo termine di una scuola d'arte che rinserri, codifichi e imprigioni. Ci troviamo di fronte all'espressione in assoluta libertà di quanto è sensibile, validamente sentito, senza infingimenti tecnici o richiami orecchianti ad altri che il se stesso. Ed ecco: questo è il segno che se i momenti socio-economici-politici ci hanno spento i sogni e le speranze, pittori che ricuciono lo strappo, ricollegano le radici, risveglino il senso del bello e la spiritualità del vero sono ancora lì, sulla breccia, a lottare per noi.
Gabriele Mandel, Nodi… in reale e virtuale (MPE Monconi Pejrano Editori, 1997 Milano 1994)
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[...] Un tempo mediante "storiette" grandi o piccole (cioè gli affreschi, le pale d'altare, i quadretti) i pittori narravano alla plebe analfabeta Bibbia e Storia. Oggi la raffigurazione va sempre più in disuso, affidando gli artisti ad una coloristica espressione i loro messaggi, sentimenti, speranze. E questa pittrice cerca di fare proprio questo, in nome della cecoviana intelligenza del cuore, che anche nell'arte è, o può essere, richiamo, guida, e profonda parola. [...]
Enzo Fabiani, Nuova arte. Rassegna d'artisti e partecipanti al Premio Arte 1996 (Ed. Giorgio Mondatori, 1997 Milano)
Articoli
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Art&Design Scouting. SARA MONTANI. UN UNIVERSO DI POESIA E FANTASIA
Casa Editrice PRINCIPEMEDIA, BresciaL'arte come naturale modo di vivere, un pretesto per osservare, capire, giocare, sperimentare, ma anche reimpostare regole.
Il mio è un modo d’operare piuttosto impulsivo, traboccante di curiosità, talvolta forsennato, una ricerca incline a rovistare quell’universo di fantasia e poesia che affonda le radici nella memoria, mia e di tutti. Si esplicita attraverso il confronto tra le molteplicità dei linguaggi, delle poetiche e delle tecniche espressive, dalla pittura alla scultura, dalle installazioni ai libri d’artista, e all’incisione, impiegando i materiali e i supporti più diversi.
La protagonista della rubrica ARTE&DESIGN SCOUTING di questo mese è Sara Montani che si racconta così:
"Il pensiero e l’opera di Tadeusz Kantor hanno assunto nel mio lavoro un particolare significato: l’ho scoperto nel brano Le impronte incise, tratto da Stille Nacht, I corsi di Avignone. “Vi ho trovato – scrivevo negli anni 1995-1997 – la spiegazione più esaustiva al mio fare: siamo una società che perde la memoria, per cui valuto di delegare al fatto creativo dell’arte il recupero di immagine storica e tradizione, patrimonio prezioso da non disperdere. E di farlo utilizzando il linguaggio artistico ogni volta più consono, privilegiando soprattutto affetti e oggetti – anche indumenti o trame di tessuti – che sanno imprigionare l’esistenza passata, quel qualcosa di invisibile di chi li ha posseduti e vissuti. Di farlo con determinata urgenza, per la volontà di rimettere al centro la vita. Dapprima la mia”.
Oggi la mia ricerca si è concretizzata in una riorganizzazione archeologica e antropologica, fatta con oggetti/reperti, da cui trarre a volte opere materiche, altre incisioni, stampe monoprint e monotipi o, ancora, sculture o installazioni. Possiedono l’intento di salvaguardare stralci di vita, costumi passati, memorie di ciò che non ha immagine, che è irraffigurabile, insieme al potere di stupirmi per tutte le infinite storie che ancora questi oggetti sanno suggerirmi.
Hanno altrimenti queste “cose” un’opportunità di salvezza dall’oblio? Il tempo è una forza che non accompagna sulla via del declino e del disfacimento, ma conduce all’arricchimento e alla riflessione. Giace sopito nella memoria individuale e collettiva e nella trasmissione da generazione a generazione.
L’arte è divenuta il mio naturale modo di vivere, un pretesto per osservare, capire, giocare, sperimentare, ma anche reimpostare regole. Semplicemente, come avviene per i bambini nel gioco spontaneo, quando dicono: “Facciamo che io ero...”.Succede, infatti, che assuma un’importanza fondamentale l’abbandonarmi con semplicità alle corse della fantasia e il “gioco” divenga un’opportunità che concretizza piacere, spontaneità, emotività, creatività e immaginazione, concedendomi di giungere a curiose combinazioni e stimolanti riflessioni. Come il ripensare al ruolo dell’arte, nella quotidianità, capace di trasformare l’esistenza, dell’arte, come realtà, che sa dare significato alla vita, dell’arte che diventa uno spazio scritto a cui affidarsi per rivelarsi, in un cammino che penetra la vita.
Nel corso della mia vita credo di aver utilizzato le diverse tecniche espressive proprio con la curiosità e l’interesse con cui un bambino alterna giochi e giocattoli.
Sin dagli ultimi anni in Accademia, e ancor di più negli anni ottanta e novanta, mi è interessato molto manipolare materie inusuali, come gesso, stucco, segature, colle e plastiche; mi ha sempre affascinato l’idea del contrasto, dell’opposto, delle diversità che si accostano. Mescolare materiali densi, consistenti e corposi con le trasparenze di chine, ecoline e acquerelli era diventato quasi d’obbligo. La risposta della materia vischiosa e assorbente è sempre imprevedibile perché determinata dalla modalità e dalla dose degli ingredienti utilizzati. E in questo consiste proprio il fascino della ricerca.Le materie – i metalli, l’incisione, il legno, gli acquerelli, l’olio, i collage, le chine, le resine – si sono alternate di continuo, mentre costante è stato il fascino esercitato dagli avanzi di cose, dai resti, dai rimasugli, da piccoli frammenti, dai rottami di qualcosa che, quale testimonianza, sapeva ancora parlarmi. In diverse mie opere sono presenti oggetti: conchiglie, bottoni, chiavi, legni, brandelli di tessuti, impronte, vestiti. Non sono “cose”, sono idee, pensieri a cui rimandano gli oggetti stessi, le loro ombre, il vissuto loro e mio. Sono domande. Una ricerca: dove si comincia e dove si finisce.
Sono una documentazione che vuole dar voce a quanto altrimenti andrebbe disperso, dimenticato, specie se di nessun valore. Ed è solo il loro riuso, l’inserimento nel mio lavoro, questa loro nuova funzione, che ripristinano in me il loro riconoscimento. È la realtà che diviene parte integrante del mio lavoro.La sperimentazione era – e lo è tuttora – alla base del mio fare: il graffio, lo sfregamento della superficie asciutta, prodotto sulla materia gessosa con strumentazioni inusuali, caratteristico di quegli anni, offriva possibilità di segno insolito che sollecitava la mia curiosità in quanto andava a scalfire, in modo inaspettato, il deposito di colore che si infiltrava nella materia stessa. E con esso, un po’ alla volta, si scardinavano anche le cosiddette “regole accademiche” acquisite.
Sono state esperienze che già miravano a riconoscere e accogliere il valore delle texture, di superfici e di impronte che in seguito, incontrando la pressione esercitata dal torchio su matrice e foglio, hanno assunto precisi significati e definito i contenuti.
Nello scorrere degli anni questi pensieri, uniti alla volontà e alla caparbietà di recuperare tracce e memorie di vissuti, di tradizioni e costumi, si sono circoscritti prevalentemente agli indumenti.
L’abito, la sottoveste, la camicetta, un grembiulino, un colletto o il bavaglino mettono al centro l’Uomo, trattengono in modo effettivo, concreto, fisico la vita, l’intimità, il valore dell’esistenza. Il dar loro “nuova forma” mi cattura, l’invisibile dà senso al visibile, si incarna, si fa corpo, materia e segno e, contemporaneamente, mi consente di recuperare immagine storica e tradizione.I linguaggi espressivi che ho ritenuto più idonei a tal fine sono stati la calcografia e la scultura in resina. Per intuito, ho iniziato poco alla volta, privilegiando oggetti legati ad affetti, col fine di “sentire”, nella mia pratica consueta, brandelli di vita appena trascorsa, la realtà più vicina.
Un capo d’abbigliamento ha un significato culturale e sociale. Esso concentra la funzione pratica, legata alla vestibilità e al gusto dell’epoca, e quella simbolica, che identifica uno status sociale, civile e religioso. L’abito attesta l’evoluzione dal punto di vista antropologico/etnografico, documenta la trasformazione del costume, della moda, del consumo e, quale prodotto dell’industria tessile, anche il punto di vista socio/economico. Degli abiti si possono quindi studiare le materie prime impiegate, i tessuti, le tecniche di realizzazione, gli aspetti estetici e quelli simbolici, i fattori economici e le gerarchie sociali. Io sono stata catturata soprattutto dalle loro impronte. Così accadde che l’impronta, quale proiezione autentica della personalità umana, sia diventata luogo di indagine della mia ricerca.
Ho considerato l’abito come traccia privilegiata del vissuto, segno equivalente al linguaggio, e quindi ho voluto elaborare il vestiario, gli indumenti, reinterpretandoli ogni volta in modo nuovo.
L’“abito/vissuto” in calcografia diventa prima matrice e poi si fa stampa originale. Dà diverse immagini di sé, per mezzo del colore o della modalità di inchiostrazione e di stampa, originando esemplari diversi fra loro, fogli, autentici e unici.Anche per la scultura, il mio lavoro guarda il passato per parlare del presente, una sorta di pensiero nostalgico sommerso da un’urgenza di ascolto e poi di racconto nuovo che mira a ricreare una memoria tangibile. Che voglio vedere nascere dalle mie mani. Un presente ricostruito dalle “cose di ieri” in un rapporto reale, di uno a uno, dove l’arte diviene luogo di completezza e di riconoscimento di sé.
L’oggetto, che sin dagli inizi era spesso parte integrante dell’opera, testimoniando il bisogno di portare la “realtà” dentro l’opera per capirla, per “sentirla” con il passare del tempo, è divenuto sempre di più uno strumento per ascoltarla ed evocarla, attraverso un percorso che la trasforma in un’impronta di memoria.
La frequenza della scuola di scenografia ha favorito l’idea di creare comunanza e relazione tra vari linguaggi e vari contenuti. E l’idea di una messa in scena aleggia sempre nella progettazione di un lavoro. Così, come accade in teatro, ogni opera assume il ruolo di “personaggio” e va cercando un contesto per una relazione. Scrive Luca Pietro Nicoletti per l’introduzione del mio libro “Le regole del Gioco”: [...] Per questo gli indumenti non bastano nella loro cruda identità oggettuale, ma vanno ‘atteggiati’ sul piano: devono diventare ‘attori’ su una scena che ne rivelerà una vita nascosta. Possono persino animarsi come dei veri e propri personaggi fluttuanti in un mondo privo di coordinate spazio-temporali: la rappresentazione si risolve infatti sul piano, con movimenti traslati soprattutto sulla superficie del foglio di carta o della lastra calcografica”.
Sono una documentazione che vuole dar voce a quanto altrimenti andrebbe disperso, dimenticato, specie se di nessun valore. Ed è solo il loro riuso, l’inserimento nel mio lavoro, la loro nuova funzione che ripristinano in me il loro riconoscimento. È la realtà, non sempre visibile, che diviene parte integrante del mio lavoro.
Il mio lavoro guarda il passato per parlare del presente, una sorta di pensiero nostalgico sommerso da un’urgenza di ascolto e poi di racconto nuovo che mira a ricreare una memoria tangibile. Che voglio vedere nascere dalle mie mani. Un presente ricostruito dalle “cose di ieri” in un rapporto reale, di uno a uno, dove l’arte diviene luogo di completezza e di riconoscimento di sé.
Mi avvince il rimettermi in gioco, la scoperta dell’incerto e dell’insolito, il non sostare sulle certezze acquisite, l’affidarmi all’imprevisto, il vivere balenando in burrasca, dando pieno credito e fiducia al rapporto nuovo che va delineandosi con l’“altro”.
“Voglio fare qualcosa con te” è stata la frase che ho pronunciato, sovente e mai a caso, riuscendo a concretizzarla in diversi progetti. Non sono mai stata delusa, anzi, le difficoltà che la cosa ha comportato hanno avuto un importante riscontro per le mie risorse: lo stare in bilico, il trovare ogni volta l’equilibrio adeguato al fine di raggiungere l’obiettivo concordato sono state altre motivazioni di fondo proprie della mia ricerca.
È la consapevolezza di far parte di un “tutto” che aggiunge significato al mio fare arte. Arte insieme, nessuno sminuisce nessuno.
Come in un libro, le pagine si succedono avvalorandosi l’una con l’altra." -
Ho incontrato Sara Montani (Milano, 1951) nel suo studio a dicembre, poco prima di Natale, dopo averla conosciuta ad ottobre a Milano Scultura, dove aveva esposto degli abiti irrigiditi nella resina o che avevano lasciato la loro impronta sul plexiglas, in modo da fornire a questi indumenti storicità e una durata nel tempo al di là della loro caducità. Il luogo in cui lavora è la rappresentazione di una lunga carriera, pieno di opere e materiali disposti con ordine. Poiché Sara Montani è un’artista che oltre ad aver lavorato molto si è anche raccontata, con una capacità di autoanalisi non indifferente, nel suo libro d’artista Vivere l’arte pubblicato da Silvana, è possibile cogliere dal suo racconto quelle che sono alcune tracce interpretative della sua attività.
L’arte concettuale della Montani procede da una rappresentazione più astratta ad una più realistica arricchita del suo vissuto prima di bambina e poi di giovane, di donna, di insegnante, di madre e oggi di nonna, “che si è concretizzata in una riorganizzazione archeologica e antropologica, fatta con oggetti-reperti, da cui trarre a volte opere materiche, altre incisioni, stampe monoprint e monotipi o ancora sculture o installazioni” che, volendo coglierne quella che è l’essenza esperienziale del suo agire, ne fa anche un esempio di gender art femminile. Questo non perché lei abbia trattato esclusivamente la tematica femminile o femminista, in particolare legata all’abbigliamento, ma perché lei, come notato da Elena Pontiggia, ha portato avanti la sua ricerca e impiegato le varie tecniche con délicatesse, aggiungendo a queste anche la poesia, il racconto, la collaborazione con altri artisti, poeti, letterati e quindi integrando l’immagine con la parola…
Leggi l’articolo completo: La Vita e l’Arte per Sara Montani - La Città Vegetale
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Chi ha avuto l’opportunità di conoscere a fondo la lunga e fertile esperienza artistica di Sara Montani, nata a Milano nel 1951, non può non essere rimasto colpito dalla stretta e costante relazione esistente tra la sua vita artistica e la sua professione di insegnante. Sembra quasi che, attraverso il suo ruolo di docente di educazione artistica nella scuola media inferiore, Sara raggiunga un humus speciale, che le permette di coltivare e sviluppare la sua creatività assieme ai suoi studenti, ponendosi, quindi, non come semplice portavoce di nozioni, ma come artista che, nello stesso momento in cui attua il proprio progetto formativo, persegue la propria completezza espressiva e creativa. Nel suo metodo didattico vengono coinvolte le materie ufficiali intrecciate al “fare teatro” e suo obiettivo preminente sembra essere condurre i ragazzi a valorizzare la creatività motivando le attività anche con partecipazioni a mostre e concorsi d’arte. Nel 1990 progetta e cura la realizzazione di uno spettacolo su Ignazio di Loyola, in cui gli attori sono 209 ragazzi della scuola media statale “Arcadia” di Milano, dove allora la Montani insegnava. Nel 1991 abbandona l’insegnamento, per aprire un proprio studio, sempre a Milano, dove continua però il suo lavoro di ricerca artistica, sempre a stretto contatto con il mondo giovanile. Nel 1999, assieme a un gruppo di artisti, dà vita alla nascita del laboratorio “La Stamperia BcomeBottega” dapprima presso l’Università Cattolica, quindi alla scuola primaria Thouar-Gonzaga di Milano, dove la stamperia rimane attiva fino al 2020. Dal 2023 la Stamperia è stata donata al Comune di Milano. Il lavoro di Sara Montani procede tutt’ora a ritmi serrati e si orienta verso l’impiego della stampa originale, monoprint e monotipo; pittura e scultura, fotografia, installazioni, libri d’artista, teatro e ombre sono i linguaggi della sua ricerca, dedicata spesso a questioni sociali e a tematiche di genere. Una copiosa bibliografia accompagna il procedere e le varianti del suo cammino artistico, sempre proiettato in avanti. Le sue opere sono raccolte in collezioni pubbliche e private, in Italia e all’estero.
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