Sara Montani tra caso e tecnicismo
Un Coup de Dés n’abolira jamais le Hasard. Come Mallarmé nel 1897 ha voluto sfidare il Caso con i colpi di dado della parola lirica, inseguendo sulla pagina attraverso lo schema grafico e l’alternanza dei vari caratteri tipografici l’ombre enfouie dans la profondeur par cette voile alternative, anche Sara Montani è solita sfidare il Caso, servendosi delle “impronte” di vari materiali eterogenei, per inseguire l’unicità di “quell’ombra nascosta nel profondo per mezzo di un volo alternativo”. In fondo è sempre dell’esplorazione dell’inconscio che si tratta, qualunque sia il mezzo adoperato e la diversità del risultato finale (lì il poema lirico e qui le immagini a stampa).
La stessa Montani, in una plaquette del 2005 (Diario/Appunti/Spunti/Dubbi), afferma che “dagli anni ’90 il mio lavoro si snoda attraverso il recupero, con impronte, di oggetti o situazioni personali, che diventano una metafora”. E parlando di abito-impronta, aggiungeva: “Ho fatto diverse incisioni a ceramolle: bavaglino, camicino, cravatta, reggiseno, reggicalze, camicetta: l’impronta lasciata sulla lastra di rame o di zinco e poi stampata, racconta la sua storia e trasforma l’oggetto in cosa altra. […] Abito l’abito o ne sono abitata? E chi è l’artista?”.
Nella stessa plaquette ci racconta che si era all’improvviso ritrovata in un illuminante testo di Tadeusz Kantor (Stille nacht. I corsi di Avignone del 1990), intitolato Le impronte incise: “Certi avvenimenti, certe persone, certi fenomeni ritornano come attirati da una forza sconosciuta che è in me . […] Facevano irruzione nella scena e sulla tela. […] Portavano con sé il silenzio e il gusto di eternità, di morte, l’abisso della memoria, i richiami disperati del passato, la corsa spensierata dell’infanzia. […] Tracce… la cosa più importante è riconoscerle”. In ogni caso, quello che è importante è che l’artista, qualunque sia la costrizione dell’artificio tecnico adoperato, lasci poi vagare l’immaginazione creativa nella sua più assoluta libertà. Come quella – richiamando una pagina de La mia Africa di Karen Blixen – onirica, “la libertà del sogno e nel sogno”.
In un più recente catalogo, edito dal Centro dell’Incisione Alzaia Naviglio Grande di Milano (Tracce e rimandi, 2008, a cura di Alberto Veca), è Daniele Gulizia a chiedersi se si può parlare di “metodo casuale” di fronte alla “conclusione felice di un gesto nato da un impulso improvviso”, dove la conclusione provvisoria costituisce soltanto l’involontario nuovo punto iniziale, essendo tale involontarietà solo “disponibilità di ascolto e rielaborazione di quello che il caso rimanda”. Ed è poi la Montani a intitolare un testo, Il caso diventa metodo, nel quale afferma di aver “sempre ritenuto fondamentale […] saper coniugare i trascorsi storici, le conoscenze culturali e tecniche con la continua scoperta di ciò che il rapporto con il nuovo e diverso può generare”. Per questo viene richiamato l’insegnamento di Winnicott, secondo cui non è possibile essere originali se non sulla base della tradizione, in conformità peraltro – aggiungiamo noi – della grande lezione dell’arte greca classica, dove l’innovazione era possibile per apporti successivi nel solco della tradizione. E in questa dialettica fra tradizione e originalità, Montani aggiunge di aver saputo trovare le “più svariate opportunità inventive” nell’antica tecnica dell’impressione calcografica, “senza escludere il valore del fare sperimentale che conduce ad un controllo consapevole del caso e dell’improvvisazione. […] Durante il mio lavoro la mia attenzione non è volta solo al raggiungimento di un risultato, vale a dire dell’opera finita, ma viene catalizzata dal procedimento, dagli strumenti operativi e dai mezzi espressivi di per se stessi. Questo interesse trova nel monotype (monotipo) e nel monoprint (monostampa) la direzione più rispondente e congeniale al mio fare”.
E’ Marisa Ferrini Keble a precisare poi in che cosa consista la differenza fra le due tecniche: “essa sta nella matrice. Nella realizzazione di una monostampa si parte da una matrice di base, con tracce, segni e texture permanenti, sulla quale, prima di ogni passaggio sotto il torchio, l’artista interviene apportando varianti o cambiando l’inchiostratura o usando mascherature o intervenendo secondo la sua inventiva. Tutto ciò permette di realizzare un certo numero di stampe, differenti l’una dall’altra e che sono da considerarsi opere uniche. Nel monotipo invece la matrice non è riutilizzabile, perché praticamente viene dipinta (da qui il termine inglese painterly print, stampa pittorica) e quindi, una volta trasferita l’immagine sulla carta, la matrice si perde”.
“Con il metodo di non avere un metodo, ma certezze sui significati della sperimentazione, le immagini impresse dal torchio – conclude Sara Montani – si ripetono” e si diversificano continuamente. “Si esalta così intenzionalmente la diversità, ed è questa diversità che legittima il monotipo e la monostampa, quale unicum, opera che bandisce il pennello per privilegiare il torchio. Il torchio perché ha in sé quella speciale fascinazione che permette di considerare la magia del caso e dell’imprevisto”.
Per i greci – è noto – non esisteva la moderna distinzione che noi facciamo fra “arte” e “tecnica”. Tutto rientrava nello stesso termine di tékhne. Nell’àmbito di tale divaricazione di significati è tuttavia legittimo chiedersi per un momento se nell’arte di Sara Montani non vi sia un eccesso di tecnicismo, peraltro connaturato alla diversità dei materiali impiegati nei suoi procedimenti espressivi. La verità è che è tutto un aspetto dell’arte moderna e contemporanea l’essere rivolto alla speritentazione: nella quale diventa fondamentale proprio il procedimento. Ricerca tecnica e procedimento, d’altronde, sono l’essenza dello stesso divenire artistico. Come già diceva Gillo Dorfles, che cita l’esempio dell’uso del trapano nei capitelli per gli artisti bizantini, l’”importanza dei dati tecnici nella valutazione estetica” è ineliminabile e caratterizzante (in Il divenire delle arti, Einaudi, TO, 1959, p. 60).
Altra questione che si presenta nella fruizione critica dell’arte di Sara Montani è quella che certe sue superfici, derivate dai trafori, dai tulli e dai merletti di determinati tessuti che servono a fare le matrici dei suoi monotipi, appaiono troppo marcate in senso decorativo. Storicamente – anche questo è noto – il decorativismo nello Jugend Stil e nell’Art Noveaux era una conseguenza della sperimentazione di materiali eterogenei, derivante per lo più dalla tendenza alle Arti Applicate (negli usi domestici e industriali). Si prenda l’esempio massimo di Klimt, che nel 1908 fu accusato da Adolph Loos di “epidemia decorativa”. Ma dove nell’esempio di Klimt, come sostenne il critico Ludwig Hevesi, l’”ornamento è una metafora della materia primordiale in continua mutazione”, in Sara Montani – e non sia eccessivo e irrispettoso il paragone con l’austriaco – ogni orizzonte pànico/metafisico resta assente: si tratta semplicemente di un più modesto e ordinario impiego di materiali tessili attraverso i quali il Caso, interrogato e stimolato, può fornire risposte in direzione di quell’unicum che era nelle sue finalità conseguire.
Sergio Spadaro